Richard Bachman

PERCHÈ ERO RICHARD BACHMAN

A CURA DI STEPHEN KING

richard bachmanTra il 1977 e il 1984 ho pubblicato cinque romanzi sotto lo pseudonimo di Richard Bachman.

Erano Ossessione (1977), La lunga marcia (1979), Uscita per l'inferno (1981), L'uomo in fuga (1982) e L'occhio del male (1984).

Due sono i motivi per cui alla lunga sono stato riconosciuto sotto il nome di Bachman: perché i primi quattro libri, tutti originariamente in edizione tascabile, erano dedicati a per­sone con cui avevo rapporti di vario genere e perché il mio vero nome compariva sui documenti riguardanti i diritti d'autore di uno dei romanzi. Ora mi si chiede perché l'ho fatto e pare che non riesca a trovare risposte molto soddisfa­centi. Meno male che non ho assassinato nessuno, vero?

 

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Posso fare solo qualche ipotesi. L'unica azione importante da me intrapresa in tutta la vita perché mosso da una ragione cosciente è stata chiedere a Tabitha Spruce, la compagna di università che frequentavo, se voleva sposarmi. La ragione era che ero profondamente innamorato di lei. Il paradosso sta nel fatto che l'amore è un'emozione irrazionale e indefinibile. Tavolta qualcosa ti dice Fallo oppure Non farlo. Io ubbi­disco quasi sempre a quella voce e quando disubbidisco di solito me ne devo pentire. Dico solo che nelle mie scelte mi lascio guidare più dalle sensazioni che dai ragionamenti. Mia moglie mi accusa di essere un Vergine dalla pignoleria invivibile e per certi versi credo di esserlo (di solito so in qualunque momento quanti pezzi di un puzzle da cinque­cento tasselli ho già sistemato, per esempio), ma non ho mai veramente stabilito piani sulle mie realizzazioni più impor­tanti e tra queste ci sono i libri che ho scritto. Non mi sono mai seduto a scrivere pagina numero uno avendo qualcosa di più di un'idea vaghissima su come si sarebbe sviluppata la vicenda. Un giorno ho pensato di far pubblicare sotto pseudonimo Getting In On, un romanzo che Doubleday aveva quasi pubblicato due anni prima dell'uscita di Carrie. Mi è sembrata una buona idea, così l'ho fatto. Come ho già detto, meno male che non ho ucciso nessuno, eh?

 

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Nel 1968 o '69, nel corso di un'intervista, Paul McCartney se ne venne fuori con una fantasticheria un po' bizzarra e malinconica. Disse che i Beatles avevano discusso il pro­getto di esibirsi in pubblico nei locali sotto il nome di Randy e i Rockets. Si sarebbero travestiti e mascherati, dis­se, perché nessuno potesse riconoscerli, poi si sarebbero scatenati come facevano ai bei vecchi tempi.

Quando gli fu fatto notare che sarebbero stati riconosciu­ti dalle voci, Paul rimase dapprima sorpreso... e poi un po' sgomento.

 

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Cub Koda, forse il più grande rocchettaro americano, mi raccontò di una dichiarazione di Elvis Presley, e come si suol dire, se non è vero, dovrebbe esserlo. Cub disse che a un intervistatore Elvis dichiarò qualcosa di questo genere: Ero come una vacca in un recinto insieme con una mandria di altre vacche, solo che per caso a me è capitato di uscirne. Vengono, dico, mi prendono e mi mettono in un altro recin­to, solo che questa volta è molto più grande ed è tutto per me. Mi guardo intorno e vedo che gli steccati sono così alti che non ne uscirò mai. Così mi dico: E va bene, brucherò.

 

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Ho scritto cinque romanzi prima di Carrie. Due erano brutti, uno era medio, e ritenevo che due fossero piuttosto buoni. I due buoni erano Getting It On (che diventò Rage quando fu finalmente pubblicato) e La lunga marcia. Get­ting It On fu iniziato nel 1966, quando frequentavo l'ultimo anno di liceo. L'ho ritrovato in seguito ad ammuffire in una vecchia scatola nella cantina della casa dove ero cresciuto. La scoperta è avvenuta nel 1970 e ho finito il romanzo nel 1971. La lunga marcia è stato scritto tra l'autunno del 1966 e la primavera del 1967, quand'ero matricola all'università.

L'ho presentato al concorso per opere prime della Bennett Cerf/Random House (iniziativa che credo sia da tempo finita in soffitta) nell'autunno del 1967 ed è stato pronta­mente rifiutato per mezzo di lettera circolare... nessun com­mento di nessun genere. Depresso e con l'orgoglio ferito, sicuro che il mio libro doveva essere terribile, l'ho gettato in quel leggendario baule che tutti i romanzieri, gli arrivati e gli aspiranti, non possono non avere. Non l'ho ripresentato fino a quando Elaine Geiger della New American Library ha chiesto se «Dicky» (come lo chiamavano) avesse inten­zione di dare un seguito a Ossessione. La lunga marcia è fi­nito nel baule, ma come dice Bob Dylan in Tangled Up in Blue, non ha mai abbandonato la mia mente.

Nessuno di loro ha mai abbandonato la mia mente, nem­meno quelli pessimi.

 

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I numeri sono cresciuti a dismisura. Centra anche questo. Ci sono momenti in cui mi chiedo se, gettando una modesta manciata di parole, non abbia seminato non so quale magi­ca pianta rampicante di fagioli... ovvero un incontrollabile orto di libri (PIÙ DI 40 MILIONI DI LIBRI DI KING STAMPATI!!! come piace strombazzare al mio editore). Oppure, metten­dola in un'altra maniera, certe volte mi sento come Topoli­no in Fantasia. Sapevo quel che c'era da sapere per mettere in moto le scope, ma dopo che hanno cominciato a marcia­re, tutto è cambiato.

Sono lagnoso? No. Dico che quanto meno le mie lagnan­ze sono in punta di penna. Ho fatto del mio meglio per se­guire il consiglio di Dylan e cantare le mie catene come il mare.

Voglio dire che potrei sciogliermi i capelli e abbandonar­mi al pianto sulla dura vita di Stephen King, ma dubito che tutti quelli che intorno a me a) sono disoccupati, o b) si spaccano la schiena settimana dopo settimana per far fronte a tutte le spese e tirare con decoro la fine del mese avrebbe­ro molta voglia di compiangermi. Né me lo aspetterei. Sono ancora sposato alla stessa donna, ho figli che godono di buona salute e intelligenza, e vengo pagato bene per fare qualcosa che faccio con immenso piacere. Dunque di che mi devo lagnare?

Niente.

Quasi.

 

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Una nota per Paul McCartney, se mi ascolta: l'intervista­tore aveva ragione. Vi avrebbero riconosciuti per le voci, ma prima ancora che aveste aperto bocca, avrebbero rico­nosciuto i passaggi di chitarra di George. Io ho fatto cinque libri come Randy e i Rockets e ho ricevuto lettere in cui mi si chiedeva se ero stato Richard Bachman fin dal principio.

La mia risposta non potrebbe essere più semplice: ho mentito.

 

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Credo di averlo fatto per raffreddare un po' l'atmosfera, per fare qualcosa nelle vesti di qualcuno che non fosse Stephen King. Credo che tutti i romanzieri siano incorreggi­bili mistificatori ed è stato divertente essere qualcun altro per un po', nel mio caso Richard Bachman. Il quale non ha mancato di crearsi una personalità e una storia con cui sor­reggere la falsa foto dell'autore sulla quarta di copertina di L'occhio del male e la falsa moglie (Claudia Inez Bachman) al quale il libro è dedicato. Bachman era un personaggio di­scretamente sgradevole, che era nato a New York e aveva trascorso una decina d'anni nella marina mercantile dopo quattro anni nella guardia costiera. Si era infine stabilito in una zona rurale del New Hampshire, dove scriveva di notte dopo essersi occupato durante il giorno della sua fattoria di medie dimensioni. I Bachman avevano un solo figlio ma­schio, morto in un disgraziato incidente a sei anni (annegato in un pozzo). Tre anni prima vicino alla base del cervello di Bachman era stato trovato un tumore, rimosso con un deli­cato intervento chirurgico. Nel febbraio del 1985 è morto al­l'improvviso, cioè il giorno in cui il Daily News di Bangor, il quotidiano della mia città, ha resa pubblica la vera identità di Bachman, circostanza da me confermata. E stato anche divertente essere Bachman, uno scostante asceta alla J.D. Salinger, che non rilasciava mai interviste e che, nel que­stionario della New English Library di Londra, ha scritto «falcheggiamento» nello spazio riservato al credo religioso.

 

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Mi è stato ripetutamente chiesto se l'ho fatto perché pen­savo di aver saturato il mercato come Stephen King. La ri­sposta è no. Non pensavo di saturare il mercato... ma lo pensavano i miei editori. Bachman forniva un buon com­promesso per entrambi. I miei «editori di Stephen King» erano come una mogliettina frigida che ci sta solo una o due volte l'anno e incoraggia il marito sempre arrapato a trovar­si una squillo. Bachman era il luogo dove andavo a sfogar­mi. Questo tuttavia non spiega per niente il perché del mio incontenibile bisogno di pubblicare quello che scrivo quan­do non ho bisogno della pagnotta.

Ripeto: buon per me che non ho ucciso nessuno, giusto?

 

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Mi è stato chiesto spesso e sovente se l'ho fatto perché mi sento bollato dalla definizione di scrittore di horror. La risposta è no. Non m'importa un fico secco di come vengo classificato se di notte mi è concesso di dormire in pace.

Ciononostante solo l'ultimo dei libri di Bachman è una esplicita storia dell'orrore ed è un fatto che non mi lascia in­differente. Scrivere una storia che non sia dell'orrore fir­mandola con il nome di Stephen King mi sarebbe più che facile, ma rispondere a tutti quelli che mi chiederebbero perché l'ho fatto sarebbe peggio di una tortura.

Quando ho scritto romanzi puri e semplici firmandoli co­me Richard Bachman, nessuno mi ha posto domande. Anzi, vogliamo ridere: quasi nessuno ha letto quei libri.

La qual cosa ci porta a quella che potrebbe essere... be', non la ragione che ha spinto quella voce a farsi sentire, ma qualcosa di molto, molto vicino.

 

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Si cerca di trarre un senso della propria vita. Lo fanno tut­ti, credo, e un modo di trovare un senso è cercare di trovare ragioni... o costanti... aspetti che non fluttuano.

Lo fanno tutti, ma forse le persone che sono straordina­riamente fortunate o sfortunate lo fanno un po' di più. Ci sono quelli che vogliono credere, o almeno ipotizzano, di essere stati fregati dal cancro perché sono dalla parte dei cattivi (o dei buoni, se si vuol credere alla Legge di Durocher). Ci sono quelli che vogliono pensare di essere stati de­gli indefessi figli di puttana o veri signori, per non dire san­ti, per essersi ritrovati a cavalcare la tigre in un mondo dove la gente muore di fame, ammazza e s'ammazza, si brucia, si frega, s'imbottisce, scoppia.

Ma ci sono anche quelli che propendono per l'ipotesi lot­teria, una versione «vissuta» di uno spettacolo a premi non molto diverso da La ruota della fortuna o Il prezzo è giusto (guarda caso due dei libri di Bachman raccontano di gare di questo tipo). E per qualche ragione deprimente pensare che sia stato tutto, o anche solo per la maggior parte, un caso. Così ci si ritrova forse a cercare di sapere se lo si possa fare di nuovo. Ovvero, nel mio caso, se Bachman potrebbe rifarlo.

 

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La domanda rimane senza risposta. 1 primi quattro libri di Richard Bachman non hanno venduto molto bene, forse, in parte, perché usciti senza clamore.

Tutti i mesi gli editori di tascabili pubblicano tre tipi di li­bri: quelli «di punta», sorretti da una notevole campagna promozionale, accatastati in quei pacchiani espositori di car­tone che trovate all'ingresso delle librerie, e che sono di soli­to corredati da pretenziose copertine metallizzate o con ele­menti in rilievo; «sottopunta», meno pubblicizzati, meno meritevoli degli espositori, e meno indirizzati a vendite di milioni di copie (duecentomila copie verrebbero considerate come un ottimo successo per un sottopunta); e libri puri e semplici. Questa terza categoria è, nel mondo dei tascabili, l'equivalente della guerra di trincea... o carne da macello. I «libri puri e semplici» (l'unica altra definizione che mi viene in mente è «sotto-sottopunta», ma qui si finisce nel colmo della depressione) raramente sono ristampe di edizioni car­tonate; di solito sono libri di seconda categoria con copertine nuove, romanzi di genere (gotici, «storici», western e così via) oppure romanzi seriali come Il Sopravvivente, I Merce­nari, Le avventure sessuali di una zucca lupesca... Credo di aver reso l'idea. Poi capita, ogni tanto, di trovare romanzi genuini seppelliti in questo substrato profondo e i romanzi di Bachman non sono l'unico caso di opere di scrittori noti che mandano messaggi rimanendo nell'ombra. Donald Westlake ha pubblicato opere originali sotto i nomi di Tucker Coe e Richard Stark; Evan Hunter sotto il nome di Ed McBain; Gore Vidal sotto il nome di Edgar Box. Più di recente, Gordon Lish ha pubblicato sotto uno pseudonimo un'eccellente, stimolante opera originale in edizione tascabile intitolata The Stone Boy.

I romanzi di Bachman erano «libri puri e semplici», ta­scabili che servivano per riempire gli espositori dei supermercati e delle stazioni di autobus in giro per l'America. L'avevo chiesto io, volevo che Bachman mantenesse un profilo basso. Così, in un certo senso, il poveretto giocava fin dal principio con i dadi truccati a suo vantaggio.

Eppure, poco a poco, Bachman si è guadagnato un suo seguito sotterraneo. Il suo quinto libro, L'occhio del male, aveva venduto 28.000 copie in edizione cartonata prima che il commesso di una libreria di Washington e a sua volta scrittore di nome Steve Brown s'insospettisse, si recasse al­la Library of Congress e scoprisse il mio nome su un con­tratto che mi riconosceva i diritti d'autore per i libri firmati Bachman. 28.000 copie non sono molte, non siamo sicura­mente a livello di bestseller, ma sono 4000 copie in più di quelle vendute nel 1978 dal mio libro A volte ritornano. Avevo avuto intenzione di far seguire a L'occhio del male un romanzo abbastanza truculento intitolato Misery, sem­pre firmato da Bachman, e pensavo che con quello avrei po­tuto spingere «Dicky» nella classifica dei best-seller. Ma Richard Bachman, sopravvissuto al tumore cerebrale, è morto infine di una malattia molto più rara, cancro dello pseudonimo. E morto lasciando quella famosa domanda an­cora senza risposta: è il lavoro che ti porta alla vetta o è tut­to solo una lotteria?

Ma il fatto che L'occhio del male ha venduto 28.000 co­pie quando il suo autore era Bachman e 280.000 copie quando l'autore era Stephen King, da da pensare, o sbaglio?

 

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Esiste uno stigma collegato all'idea dello pseudonimo. Non era così in passato. C'è stato un tempo in cui scrivere romanzi era considerato occupazione di basso rango, forse più un vizio che una professione, e lo pseudonimo era un modo che poteva apparire perfettamente naturale e rispetta­bile con cui proteggere se stessi (e i propri parenti) dall'im­barazzo. Con il crescere della considerazione per l'arte del romanzare, le cose sono cambiate. Da una parte i critici e dall'altra, in generale, i lettori, cominciarono a guardare con sospetto il lavoro svolto da uomini e donne che sceglie­vano di tenere nascosta la loro identità. Se fosse roba buo­na, era all'incirca l'opinione generale, sebbene taciuta, ci avrebbe messo sopra il suo nome vero. Se ha mentito sul suo nome, il libro dev'essere un pacco peggio che postale.

Dunque desidero chiudere spendendo qualche parola sul valore di questi libri. Sono romanzi buoni? Non lo so. Sono romanzi onesti? Sì, credo di sì. Sono stati concepiti con onestà, questo posso affermarlo, e scritti con un'energia che oggi posso solo sognare (L'uomo in fuga, per esempio, è stato scritto in settantadue ore e pubblicato praticamente senza modifiche). Sono un pacco peggio che postale? Nel complesso no. Qua e là... beeeee'...

Quando questi racconti sono stati scritti non ero così gio­vane da potermeli ora buttare alle spalle come opere giova­nili. D'altra parte ero ancora abbastanza implume da crede­re nelle motivazioni semplicistiche (molte delle quali dolo­rosamente freudiane) e nell'illieto fine. Uscita per l'inferno è stato scritto tra Le notti di Salem e Shining, ed è stato uno sforzo scrivere un romanzo «normale». Ero anche abbastan­za giovane a quei tempi da preoccuparmi di quella domanda che ti capita addosso là per là ai cocktail-party: «Sì, ma quand'è che farai qualcosa di serio?» Credo che sia stato anche uno sforzo per trovare un senso nella dolorosa morte di mia madre avvenuta l'anno prima, un annoso cancro che se l'è portata via torturandola, pezzettino per pezzettino. La sua morte mi ha lasciato pieno di cordoglio e scosso dal­l'apparente insensatezza della vicenda umana. Ho il sospet­to che Uscita per l'inferno sia probabilmente il peggiore semplicemente perché si sforza tanto per essere un buon ro­manzo e per trovare risposte all'enigma del dolore umano.

Il suo contrario è L'uomo in fuga, che è forse il migliore perché non è nient'altro che una storia, procede alla velo­cità ridicolesca di un film muto e tutto quello che non è sto­ria viene allegramente buttato da parte.

La lunga marcia e Ossessione grondano di pretenziose predicazioni psicologiche (a livello testuale e subtestuale), ma c'è comunque molta storia in quei romanzi, e in defini­tiva sarà il lettore meglio attrezzato dello scrittore a decide­re se la trama è abbastanza solida da sopperire a quanto di­fettano per percezione e motivazione.

Voglio solo aggiungere che due di questi romanzi, forse tutti e quattro, sarebbero stati pubblicati con il mio vero no­me se fossi stato un po' più esperto dei meccanismi edito­riali o se non fossi stato così preoccupato negli anni in cui li ho scritti da, per prima cosa, cercare di finire la scuola, e, in secondo luogo, sostenere la mia famiglia. Aggiungo ancora che li ho pubblicati (e permetto che vengano ripubblicati oggi) perché sono ancora miei amici; zoppicano senz'altro qua e là, ma a me sembrano ancora più che vivi.

 

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E qualche parola di ringraziamento: a Elaine Koster della NAL (che era Elaine Geiger quando furono pubblicati que­sti libri per la prima volta), la quale seppe mantenere così a lungo e con tanto successo il segreto di «Dicky»; a Carolyn Stromberg, primo editor di «Dicky», per gli stessi motivi; a Kirby McCauley, che vendette i diritti e seppe mantenere fedelmente il segreto altrettanto bene; a mia moglie, che mi incoraggiò con questi scritti non meno di quanto fece con gli altri che si rivelarono successi così eclatanti e proficui sul piano economico; e, come sempre, a te, lettore, per la tua pazienza e bontà.

 

STEPHEN KING

Bangor, Maine